Esodo 17,1-7 - Provocazione e contesa (J. Perrin)

Il deserto arido, secco, bruciante. Non solo nella Bibbia, anche nelle nostre vite il deserto ci afferra. Il deserto si allarga spietatamente sul pianeta terra come nelle nostre esistenze. È difficile ammetterlo ma spesso ci capita: il deserto è diventato un luogo familiare del nostro cammino di fede, un no man’s land conosciuto dove deponiamo i nostri sensi di colpa e la nostra incapacità di dialogare con Dio. Eppure siamo noi a collegare deserto con il vuoto. Siamo noi a sentire la sete ancora prima che essa arrivi. Siamo noi a fare del deserto un luogo disabitato e ostile. Certo, il vero deserto è un luogo che cancella la vita. Ma come lo suggerisce tutto il racconto biblico dell’Esodo, il deserto è anche un luogo di passaggio. Il deserto indica spesso un cambiamento possibile, un desiderio profondo che non riusciamo a gridare in pubblico e che si esprime solo nel luogo della solitudine e dell’abbandono. Il deserto porta verso la terra promessa, è il tempo della testa alta e della costruzione di una nuova identità. E quando l’acqua si materializza, quando la vita riprende la sua strada, non pensiamo più alla terra sterile né al sole abbagliante. Il messaggio spirituale del testo biblico di oggi è profondo ma continuiamo a dimenticarlo. Noi siamo nel deserto, Dio è sulla montagna. Abbiamo una prospettiva ridotta, un margine di manovra stretto, un senso della tridimensionalità appiattito. Dio invece è in alto e vede lontano, nel tempo, nella storia, nella coscienza. Dio vede lontano e disegna i confini del nostro deserto, a nostra insaputa, nostro malgrado.

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